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Ascoltando un controtenore

by David Ramanzini

L’ombra d’un timbro algido, d’uno stile artefatto,
Così pareva in epoca dimenticata affatto
Quella voce che ascrivono alla categoria:
Ma stando a quanto intendere posso, alla mente mia
Sembra che trascorressero secoli già, e non anni,

Se le orecchie non tentano ora inconsueti inganni;

Dato che quei medesimi inganni che prospetta,

Che mette spesso in opera, con cui blandendo alletta

Il male, sempre poggiano saldi sulla certezza
Dei sensi, che può accendere la perfida carezza.

Dunque, se non mi mentono i sensi, se esso è vero

Quanto mi parla all’anima per sensi, ed al pensiero,

Di quanto si fa intendere in tanto chiari suoni,

Sarà fors’anche lecito che d’inganni ragioni;

Ma non che la purissima onda di luce udita

Sia fine ad altro, o mediti l’inganno, o sia mentita:

Perché essa è vera. In ordine disposti, saldamente,

I neumi che tratteggiano la melodia sapiente

A un pensiero rispondono; la voce che tramanda

Quei segni in suoni, fievole, robusta, ardita o blanda,

Vi legge, nel suo umile ufficio, quel pensiero:

Il vero il senso illumina, lo transustanzia in vero;

Quelle parole ignobili, pretese ed infelici

A cui i morti commisero bellezze redentrici

La verità rianima; la voce, serva al vero,

È vita, corpo ed anima, del nobile pensiero;

Pensiero che racchiudono le pagine ingiallite

Di libri che aspettarono per molte umane vite

In fila che venissero tra le ombre dei ciscranni

I vivi per discernere il vero dagl’inganni.

Pagine a cui tribuirono iperboli di glorie

Molti, solo basandosi su labili memorie;

Che poi in luce tornarono per nuova fama al mondo,

O per — scoperte deboli — cadere ancora a fondo.
Dal buio, dalla polvere di secoli hanno tratte

Quelle scritture gli uomini; non sempre hanno sottratte;

Talvolta l’alto incarico gentile uno sfibrato

Cultore svolse, e il fulgido pensiero andò offuscato;

Oppure un impossibile seguendo arduo percorso

Le note calcitrarono al concertante morso;

Oppure la più intima essenza, troppo eletta,

A molti incomprensibile, creduta fu imperfetta;

Dove soltanto il correre severo, almo dei tempi

Solo potrà soccorrere ai niquitosi scempî;

Oppure /3 III 2002/ fino al termine del corso maestoso

La delibata musica andrà senza riposo

Da un fondo all’altro, e sperdere vedrà il liso supporto

Su cui i suoi neumi parlano, né giungerà al conforto

Mai d’una vera e nobile fama nel mondo; ma consola

L’idea che non possa essere né in suono né in parola,

Benché si provi, l’intimo Vero a cui si protende

Ogni affannoso artefice quando l’animo intende

Ad arricchire il popolo (pensando a dio) d’un bello

Che s’accontenta d’essere larva sola di Quello

Che gli alti cieli, dicono, abita, e a fronte al quale

Ogni bene degli uomini, pur grande, è un quasi-male.

Ma a te, voce che eterea ti spingi da quei palchi

A lusingare gli uomini, che l’obbligo scavalchi

Con tanta industria facile, e semplice fatica,

D’uomo che ad altri uomini non debba troppo amica

E faccia e voce volgere, che di donnesca tinta

Adorno il modo, l’anima degli uomini hai avvinta

Non meno che cedessero le anime delle dame,

Tiranno sei, che hai vincoli tra mano, ma non lame;

Ché se anzi i petti s’aprono, per bramosia squisita,
Per commozione ed estasi sarà, non per ferita.

Non sento né il più flebile detto, o un colpo di tosse:

Ecco il teatro! Trepido regno d’ogni non posse

E d’ogni velle, splendido di luci, oscuro ai detti,

Folle e fiero alla musica, dagli animi costretti

Scaccia ogni tenacissima sia pure traccia o marca

Di quanto decretarono per noi il mondo, o la parca;

Dove per sempre vivono gli eroi, nel cui volere

Sembra brillare, ed unico, il raggio delle sfere;

E in cui altro carattere non c’è che naturale

Chiamiamo, cedua a renderne la brama universale.

Tu, no, certo non evochi, bell’angelo gentile,

Di quell’antico e torbido mondo il compianto stile;

Nel volto ti risplendono, di candida alterezza,

Del rango e della pubblica stima la sicurezza;

La grave consuetudine, propria d’età virile,

Con l’incarnato giovane s’accoppia, in pari stile

Con cui le stelle ingemmano splendendo l’aere fosco;

Pari agli eroi che illustrano Via Larga, o Sacrobosco.

Quasi consessi unanimi di bella, di civile

Gente i tuoi rassomigliano concerti; il pieno stile

Altoborghese, equanime tra dramma e sinfonia,

Purché preannunci il classico, o memore ne sia,

Quel genere di musica che è aggiustamento, o errore;

Ed ecco il Nume Sassone, marcio d’aspro dolore,

D’eternità famelico, pieno di fasto, e atroce

Conoscitor degli uomini, la candida tua voce

Agguaglia, e il dolce, estatico, tremendo Panormita

A certa dolce musica, in punta delle dita,

Più o meno dotta o valida, per cui meno fiammeggia

Ardendo il rosso Veneto, e il vacuo alto-pompeggia.

Gli stili che s’incontrano nella tua voce, il fiero

Cozzo d’ardenti spiriti, campioni del pensiero,
E l’artificio fievole fronzuto modaiolo

Degli altri, in te s’incontrano, di tanti fanno un solo.

T’aggiri in mezzo al morbido dei legni, l’intimista

Dei palchi o d’una divite casa minimalista:

Tutto equilibra in termini sicuri lo scandire

Del tempo, e in lasse d’epoche si lascia definire,

Come accertato, placido, discreto canto, senza

Tellurie d’orror panico, di audacia o veemenza.

Tutto un buon mondo, il classico buon mondo in cui non trova

Posto alcunché d’estraneo, e che il gusto riprova;

E quanto eccede, libero d’entrare non è stato

Mai; se però insinuandosi c’entra, è trasformato.

Non luogo ha in queste solide mura il carro di Tespi,

Più che tempesta orribile, o l’onda che s’increspi;

Non c’è nulla dell’anima che, pure, ritenuta

Hanno le venerabili carte, e da cui venuta,

Disperazione e lacrime, è la maniera grande;

Forse oggi questo è il merito, queste le arti ammirande:

In questo pazientissimo ridurre alle ragioni

Del moderno sensibile, prolasso, le finzioni

Sesquipedali, erratiche, del secolo che sfaglio

Diede alla via seguibile, marciò, a colpi di maglio

Turbò le sfere placide, chiamò, non più d’odore

Di mirre in fumo all’etere, il cielo al suo dolore.

Questa maniera fievole, scolastica, padrona

Di sé, che sente debole, che satrapa ragiona,

In te soltanto celebra, nei limiti maestosa,

L’epifania ed il simbolo: si fa ricca e preziosa

Nell’arte, e nell’artefice persino, alla figura

Alta e graziosa, semplice più che non sia natura.

Nel veleggiare placido, non ha il grave il conforto

Almeno in questo secolo di ritornare in porto;

Poiché tu denegandogli l’ingresso tempestoso,

Nessun altro può giungervi: oscuro, aspro, fastoso,

Sia qual si voglia il minimo artiere, che quel Vero

Sente, e si faccia un merito di ciò, ma basta; altero

Non fece dio il tuo cantico; ma dolce; e il tuo volere

È accostumato al volgere benigno delle sfere.
Sarà per un’altr’epoca; a questa, il beneficio
Basti di tanto artefice, del suo bell’artificio.

copyright © 2002 David Ramanzini